Editoriali | 08 ottobre 2019, 23:05

Chiusura CNH a San Mauro: l’ennesimo fallimento della mentalità affaristica. Di Giuseppe Chiaradia*

A San Mauro si sta spegnendo un’altra storica fabbrica simbolo dell’ingegno degli italiani, il vero, grande, patrimonio nazionale. Lì nacque la SIMIT, creata nel 1965 dai fratelli torinesi Carlo e Mario Bruneri, che inventarono il primo escavatore idraulico al mondo (cosa non è mai stato inventato a Torino?). Così come per Embraco la parabola è sempre la stessa: gioielli dell’industria meccanica italiana finiscono nelle mani rapaci ed incapaci di società finanziarie che vengono in fabbrica solo per succhiare soldi. Date a Cesare quel che è di Cesare: le fabbriche devono essere date mano agli uomini di fabbrica, non a gente che di industria, a causa della sua formazione culturale o della sua mentalità, non ne capisce un tubo

Chiusura CNH a San Mauro: l’ennesimo fallimento della mentalità affaristica. Di Giuseppe Chiaradia*

Una storia dell’ingegno italiano

Il primo escavatore ad azionamento idraulico fu realizzato a Torino dai fratelli Mario e Carlo Bruneri. Difatti nel 1951 veniva riconosciuto alla “Ditta Carlo e Mario Bruneri” il brevetto di invenzione dell’ “Escavatore idraulico”. Nel 1965 i due fratelli fondarono a San Mauro la SIMIT.

La movimentazione idraulica permise il superamento di quella precedente a funi di acciaio, con la conseguente eliminazione di tutto l’armamentario di tamburi avvolgifune, argani, scatole di inversione, freni, frizioni, etc. Il risultato fu quello di ottenere una notevole riduzione di peso ed un inferiore costo di produzione, mantenendo inalterate le prestazioni. L’escavatore della SIMIT, commercializzato col nome di Jumbo, ebbe grande successo in tutta Europa.

Arriva la FIAT

Nel 1969 la SIMIT viene ceduta al gruppo Fiat e lo stabilimento di San Mauro viene inglobato nella Fiat Allis; successivamente, nel 1987 entra nella joint venture Fiat Hitachi; poi viene ulteriormente sballottato in ulteriori fusioni e acquisizioni fra le quali: FIAT Kobelco, New Holland Kobelco, New Holland Construction, CNH Industrial.

Lo stabilimento da 9 anni perdeva 30 milioni all’anno: colpa dei lavoratori?

Alcuni giornali riportano dichiarazioni della proprietà secondo le quali lo stabilimento da 9 anni perdeva 30 milioni all’anno e quindi, si sottintende, era inevitabile gettare la spugna. Come per dire, abbiamo fatto di tutto per tenerla in piedi, però …

Però sorge la domanda: perché le conseguenze dell’incapacità a tenere in piedi la fabbrica le devono pagare i lavoratori con la cessazione delle produzioni ? E’ per colpa loro che si perdevano un mucchio di soldi? Non è che magari gli escavatori prodotti non incontravano il favore del mercato per mancanza di progetti validi? E allora non sarebbe stato meglio mandare via la dirigenza e sostituirla con una più adeguata?

Cerchiamo di capire. Sino a quando lo stabilimento era FIAT-Hitachi, le cose andavano bene: la divisione Macchine Movimento Terra del gruppo Fiat era una indiscussa protagonista mondiale del settore, seconda soltanto a Caterpillar. Ma poi, negli anni 90, sono arrivate le alleanze sbagliate e le logiche affaristiche. E queste logiche sono foriere di disastri, nel mondo dell’industria tecnologica: soldi buttati via per inutili campagne promozionali o sponsorizzazioni, oppure per riempire le tasche di manager esperti in marketing o di altre supercazzole. E le spese in ricerca e sviluppo, nel miglioramento dei processi produttivi, in ampliamenti della gamma delle offerte con nuovi prodotti, vengono ridotte al lumicino. Ovviamente, perché gli utili dell’azienda devono entrare soprattutto nelle tasche degli azionisti.

Ma riducendo le spese per sviluppare prodotti innovativi e convenienti, come lo era il Jumbo e gli altri Fiat Allis, si toglie il futuro all’azienda, perché a lungo andare si perde competitività, soprattutto verso il Dragone cinese, le cui industrie, controllate dallo Stato, si dedicano esclusivamente e religiosamente al miglioramento del rapporto qualità/prezzo. Per i cinesi conta il fatturato, non il profitto.

Per loro conta il profitto, non il fatturato

Il problema è che all’azionista, del futuro della fabbrica, non gliene importa niente. E d’altra parte come potrebbe essere altrimenti? Uno che ha messo soldi per comprare azioni CNH alla Borsa di New York, cosa vuoi che gliene freghi dei 370 lavoratori di San Mauro? Lui ha fatto un investimento in una società della quale non sa magari nemmeno cosa produce, perché a lui interessa il ritorno economico. Se questo non c’è, vende le azioni CNH e ne compra altre.

Ed i manager vengono scelti con questo scopo: devono ragionare solo ed esclusivamente sull’oggi, devono tenersi l’azionista, il domani non esiste. Devono essere bravi a tagliare i costi ed aumentare le vendite, in modo da presentare a fine anno un bilancio che faccia sorridere l’azionista, cioè che presenti corposi utili che lui si deve mettere in tasca. E più l’azionista è soddisfatto, più il già ricco emolumento del manager s’innalza. Purtroppo, proporzionalmente agli utili destinati all’azionista ed agli stipendioni dei manager, si riducono le spese indispensabili per innovazione, competitività e stipendi del personale vero, quello che fa marciare la fabbrica.

Ma sono capaci a fare utili?

Il problema è che i manager delle società di affari, quando prendono in mano le industrie tecnologiche, spesso non sono nemmeno in grado di renderle profittevoli, perché le gestiscono con la stessa mentalità con la quale gestirebbero un’azienda dell’industria leggera, come ad esempio quelle che imbottigliano l’acqua minerale. Che però sono due mondi completamente diversi.

Nell’industria tecnologica vi è la necessità di impiegare risorse per investimenti in ricerca e sviluppo, per il personale qualificato, per l’ottimizzazione dei processi produttivi, che nell’industria leggera non esistono. Inoltre bisogna considerare il fatto che quest’ultima si rivolge ad un pubblico di consumatori, che tendenzialmente si beve qualunque cosa gli viene propinata, basta infiocchettarla e promuoverla come loro ben sanno. Invece il pubblico a cui si rivolge l’industria tecnologica è in genere attento ed informato. E non lo insaponi tanto facilmente.

Facciamo un esempio. Se uno deve acquistare un’automobile, crediamo che sia così scemo da farsi influenzare nella scelta da una sponsorizzazione del marchio di un’automobile sulla maglietta della squadra di calcio di serie A preferita? Magari per un dentifricio da 3 euro uno può anche farsi prendere per fesso, ma non per comprare un’auto che costa almeno 20.000 euro.

Quindi lascia perplessi leggere che nel 2009, quando già la situazione non era brillante, il management abbia tirato fuori l’escavatore ecologico E215B con le emissioni ridotte, molto al disotto dei limiti richiesti. Probabilmente non si sono resi conto che chi fa questi acquisti, lo fa per una necessità di lavoro, e la macchina la sceglie per le sue qualità prestazionali in relazione al costo. Delle fantasticherie pseudo ambientaliste, che tanto piacciono nei quartieri benestanti delle città, non gliene frega assolutamente niente.

Se le cose stanno così, viene da chiedersi: quanti progetti interessanti, che avrebbero potuto rilanciare lo stabilimento, sono rimasti nel cassetto perché la mentalità dei manager era inadatta per comprenderne il valore? Quante carriere di ingegnosi specialisti nel costruire macchine o dirigere le produzioni sono state soffocate perché al loro posto veniva messo qualcuno estraneo alla cultura dell’industria?

*Giuseppe Chiaradia, ingegnere chimico