Editoriali | 24 maggio 2019, 10:36

L'identità perduta: via Roma, il salotto della grande Torino, trasformata in pista ciclabile. Di Giuseppe Chiaradia*

Via Roma, metafora del cambiamento. Fra decadimento sociale e ideologie, Torino sempre più simile alle città cinesi di Mao Tze Tung. Ma resta una speranza

L'identità perduta: via Roma, il salotto della grande Torino, trasformata in pista ciclabile. Di Giuseppe Chiaradia*

Nei decenni passati via Roma era il salotto della grande Torino, l’equivalente in scala ridotta dell’Avenue des Champs-Elisèes di Parigi. Dire “andiamo in centro” oppure “andiamo in via Roma” era la stessa cosa, perché lungo quel corso imponente erano distribuiti i negozi e più eleganti della città.

Via Roma era un flusso continuo di auto a tutte le ore del giorno e della notte; era un’arteria di riferimento non solo per i residenti e la miriade di negozi e uffici di tutti i tipi sparpagliati su sulla vasta zona centrale che da Piazza Castello si stendeva verso piazza Statuto, Porta Palazzo, Piazza Vittorio e Piazza Carlo Felice, ma serviva anche come zona di attraversamento della città est-ovest. La disposizione era perfetta: ad una estremità piazza Castello, all’altra Porta Nuova con le sue fontane, al centro piazza San Carlo, dove era collocata la statua più famosa.

Il sabato pomeriggio c’era l’inevitabile passeggiata in via Roma, ad ammirare le vetrine dei negozi alla moda. Tutti gli stilisti affermati, Valentino, Versace, Ferrè, Armani, avevano i loro atelier su quella via, ed in piazza San Carlo. Ma c’erano nei paraggi anche altri negozi di grande livello, come Galtrucco, Rivella, Top Ten, My Dream. I ragazzi dei quartieri della città, vestiti con il look giusto per le loro frequentazioni (allora non c’era ancora la globalizzazione ad uniformare il tutto), accorrevano anch’essi per il rito della passeggiata, che era quello di farsi le cosiddette vasche. Alla sera si ricominciava, però in macchina: su e giù sulla via ravvivata dalle insegne, prima di andare in discoteca, con la speranza più o meno vana di fare qualche amicizia “on the road” col sesso opposto mentre si attendeva ad un semaforo.

La grandezza della Torino di ieri

Se a Milano c’erano i sciur Brambilla con la loro fabbrichetta, a Torino c’era la grande industria meccanica. La prima capitale d’Italia è stata Torino e in questa città il re, all’arsenale, concentrò la produzione delle artiglierie, che costituì il primo germoglio dell’industrializzazione della città. Durante la prima guerra mondiale gli operai delle fabbriche torinesi furono esentati dal servizio militare: dovevano produrre le mitragliatrici, i camion, gli aerei che servivano per i soldati al fronte. A rischiare la ghirba ci andavano gli altri, non loro, perché il loro lavoro era troppo importante per la Patria, altrimenti con quali armi avrebbero combattuto i soldati al fronte? Torino era la città più importante d’Italia, dove era concentrata la potenza industriale della nazione.

Anche durante il boom economico del dopoguerra il ruolo di Torino fu fondamentale per l’economia italiana, la quasi totalità delle automobili che entravano per la prima volta nelle famiglie italiane in quegli anni di crescita felice erano fatte a Torino: Fiat, Lancia, Abarth, Pininfarina, Bertone. Ed era un circolo virtuoso: gli italiani acquistavano auto prodotte dalla Fiat, quindi la Fiat cresceva ed assumeva altri lavoratori provenienti dalle provincie limitrofe e da molte regioni italiane; i nuovi lavoratori si compravano a loro volta la macchina e mettevano da parte persino i soldi per la casa. Tutti ne beneficiavano: quelli che affittavano le case agli emigranti del sud che venivano in fabbrica a lavorare, i commercianti che vendevano merci per tutte le tasche: sia per quelle dei lavoratori, sia per quelle dei danarosi, che il boom aveva moltiplicato.

La borghesia rifugge lavoro manuale e mercanti

I ceti benestanti istruiti della città, la cosiddetta borghesia, hanno assistito con malcelata soddisfazione al decadimento della città, causato dalla progressiva deindustrializzazione cominciata a partire dagli anni 90. D’altra parte, tradizionalmente la borghesia rifugge il lavoro manuale o il commercio come se fossero la peste. Gestire una bottega o dirigere un’officina sono attività che mal si conciliano con chi può condurre una vita comoda dedita ad eteree attività da scrivania, dove si riflette e si contempla tanto, ma si fatica poco, e non ci si deve svegliare alle 6 di mattino per alzare la saracinesca o per entrare al turno di lavoro.

Negli anni si era consolidata una certa borghesia parassitaria che ha campato benone grazie alla Fiat, assumendo incarichi fasulli e ben retribuiti dentro l’azienda o, peggio ancora, prendendo dirigenze in settori cruciali e delicati non in virtù della competenza, ma dell’appartenenza alla cortigianeria della famiglia.

La mangiatoia Fiat se ne va negli States? Nessun problema, ci avrebbe pensato il cosiddetto terziario avanzato a colmare la perdita: marketing del turismo, business dell’ambiente, eventi vari, olimpiadi, metropolitane, stazioni ferroviarie per Parigi, ed altre amenità. Oltretutto in queste mangiatoie quelli che non ha mai imparato a fare qualcosa ci sguazzano piuttosto bene: se ti metti a costruire un ponte, devi esserne capace assai, perché poi quello deve rimanere su e non deve cadere in testa alla gente; se invece ti metti a fare l’accoglienza, devi solo andare a cercare cibo, eventualmente anche scaduto, per intascarti la differenza.

L’illusione della borghesia torinese

Poveri illusi, pensavano che si potesse fare a meno della Fiat e di tutto quello che le stava dietro, e i risultati si sono visti. Si dice che la necessità aguzza l’ingegno, evidentemente il benessere ha un effetto opposto, fa perdere il senno. Se non ci sono gli stipendi dei lavoratori delle fabbriche che producono merci, cioè ricchezza, da dove spuntano i soldi per comprarsi i vestiti, per andare in vacanza, per farsi la casa? Come si fa a distribuire la ricchezza se essa non viene generata? Tutti, a parte i pochi beneficiati dalla globalizzazione selvaggia, perlopiù manager di catene di supermercati stranieri, sono diventati più poveri: operai ed impiegati delle fabbriche chiuse si sono trovati senza lavoro, quelli che per fortuna ce l’hanno, si ritrovano uno stipendio che gli permette a mala pena di arrivare a fine mese, i commercianti con incassi al minimo, i titolari degli ex negozi di lusso a spasso o riconvertiti all’outlet, i proprietari di immobili hanno visto le loro rendite dimezzarsi, vedi il tracollo del valore delle case. I figli di tutti i lavoratori e di quello che una volta si chiamava ceto medio ma che ora non esiste più, si ritrovano accomunati da un futuro incerto, privo di prospettive interessanti e sicuramente meno brillante di quello dei loro genitori. E pensare che ci avevano lasciato intendere che entrare nell’euro sarebbe stata una gran figata.

Il decadimento di via Roma

Suo malgrado via Roma si è dovuta adeguare a questi tempi infelici. Lavoro che produce ricchezza non ce n'è allora via gli stilisti famosi e largo agli outlet con saldi permanenti tutto l’anno e alle catene straniere low cost. E pensare che negli anni '70 se non avevi 100.000 lire per comprarti un jeans Levi’s eri un poveraccio. In compenso sono spuntati come funghi amburgherie, gelaterie, street food (così lo chiamano, loro) gelaterie, tutte attività coerenti con l’era della decrescita infelice in cui siamo piombati.

Il centro ha subito una pedonalizzazione selvaggia e via Roma è stata interdetta al traffico. Quella che una volta era la via trionfale della città oggi è una strada di passeggio come le altre del centro, dove la gente vaga come se si trovasse dentro il parco di un museo ed anche l’abbigliamento informale, simile a quello degli sparuti gruppi di turisti della domenica, è più adatto ad una scampagnata.

La cosa più grottesca di tutte è che nella città che è stata la capitale italiana ed europea dell’auto, si fa di tutto per limitare la circolazione delle automobili, mentre si dovrebbe perlomeno rispettarla l’automobile, perché ha dato lavoro e prosperità a generazioni di torinesi.

La mortificazione, il pedaggio per entrare in centro

Gl’interventi punitivi sulla viabilità nel centro, ne hanno ridotto il traffico al lumicino, rendendolo simile a quello delle tristi città dell’est europeo prima della caduta del muro. Ma ora, in un impeto di cupio dissolvi, si vuole pure mettere il pedaggio per entrare nella ZTL, adottando il pretesto dell’inquinamento causato dalle poche auto che si avventurano lì dentro. Qui sembra che il buon senso si sia smarrito. Come fa la via dello shopping ad essere senza traffico di auto? Ve la immaginate la Fifth Avenue senza auto? Ma se ad uno gli disturba il traffico e vuole farsi una salutare passeggiata può benissimo andare al parco del Valentino, mica deve per forza andare in centro.

Fra blocchi farlocchi delle auto a gasolio in inverno, pedonalizzazioni, ecotasse assurde, pedaggi per accesso al centro, siamo di fronte ad un’ostilità irrazionale verso la civiltà moderna, che viene giustificata agitando lo spauracchio dell’inquinamento. A parte le Tesla elettriche da 100.000 euro, sembra che l’unico mezzo di trasporto privato consentito e suggerito sia la bicicletta, visto che si stanno costruendo piste ciclabili dappertutto: ma quanti sono e chi sono quelli che circolano in centro con quelle bici spesso scalcagnate? Avanti di questo passo, fra decadimento sociale ed ideologie strampalate, Torino assomiglierà sempre più ad una città cinese ai tempi del Cina di Mao Tze Tung, dove un miliardo di poveracci circolava rassegnato in bicicletta. Non ci resta che sperare che arrivi anche da noi un Deng Xiaoping italiano.

*Giuseppe Chiaradia, ingegnere chimico