C’è un linguaggio che cambia, e non è solo questione di stile. Ogni parola, nella Chiesa, ha un peso, una tradizione, una genealogia simbolica che la rende pietra viva nel corpo millenario della fede. Per questo non è un dettaglio che il nuovo Papa, Leone XIV, abbia esordito pubblicamente con un lessico che sembra segnare uno scarto netto rispetto al pontificato precedente.
Lo si è notato fin dal primo affaccio: l’uso del latino, la sobrietà solenne dell’abbigliamento, la scelta di recitare l’Ave Maria e non di limitarsi a un semplice saluto. In apparenza, gesti semplici; nella sostanza, segnali forti. Il nuovo Papa ha fatto il Papa fin dal primo istante.Molti si aspettavano una sorta di continuità con Francesco, un “Bergoglio bis”. Invece, nel giro di poche settimane, si è palesata una linea ben diversa.
Se il Papa argentino aveva insistito sul ruolo di Vescovo di Roma, minimizzando nei fatti la portata simbolica e dogmatica del primato petrino, Papa Leone ha immediatamente riaffermato la centralità del successore di Pietro. E lo ha fatto non con proclami, ma con la precisione delle parole e dei segni. Dicendo, ad esempio, che “il male non prevarrà”, ha ristabilito un orizzonte teologico preciso: il riconoscimento dell’esistenza del male come forza attiva nella storia.
Non una generica debolezza umana, non un disordine da correggere pastoralmente, ma un antagonista da combattere. Una Chiesa militante, insomma, come da tradizione, ma anche una Chiesa che combatte per la pace e non solo nella pace. Parole che evocano Leone, sì, ma anche Benedetto.Perché qui si innesta un elemento di riflessione più profondo, che pochi oggi hanno il coraggio di esplorare con onestà: l’ombra lunga di Benedetto XVI.
Joseph Ratzinger è morto da poco più di un anno, ma la sua presenza, per quasi un decennio, ha pesato enormemente sul pontificato del suo successore. Non tanto per ciò che ha detto – sebbene abbia scritto e detto molto – quanto per ciò che ha continuato a rappresentare. Si è sempre dichiarato dimissionario per libera scelta, e nulla lascia supporre il contrario. Ma la sua rinuncia, per molti versi, è apparsa incompiuta. Ha scelto di restare in Vaticano, di vestire di bianco, di mantenere appellativi e abitudini che – seppur formalmente non più papali – lo identificavano ancora come tale.
E questo, nella Chiesa cattolica, dove ogni dettaglio è teologia incarnata, non è mai neutro.Non ha mai apertamente contrastato Francesco, ma ha pubblicato testi e lettere in cui il tono e l’orientamento dottrinale erano inequivocabilmente altri. Ha parlato di relativismo, di verità, di liturgia con una fermezza che mal si conciliava con l’approccio più fluido e pastorale del Papa regnante. E così, silenziosamente ma potentemente, ha rappresentato una forma di controllo implicito. Un freno. Una presenza che, anche senza opporsi, costringeva Bergoglio a muoversi con cautela, forse a non spingersi oltre un certo limite.Questa coabitazione di due Papi – uno regnante, l’altro emerito – è stata una novità assoluta nella storia moderna della Chiesa, e ha creato un’ambiguità che né il diritto canonico né la tradizione ecclesiale avevano previsto.
Un Papa che si dimette, ma resta visibile, riconoscibile, attivo nel dibattito teologico: è un fatto. Il diritto canonico dice che se un Pontefice si dimette non liberamente, anche solo nel foro interno, quella rinuncia non è valida. Ratzinger ha sempre detto di essersi dimesso liberamente. Eppure ha continuato a comportarsi da Papa emerito in un modo che sembrava suggerire altro. Non un complotto, ma un mistero ecclesiale che resterà aperto.E il dato più interessante è che, appena Ratzinger muore, Francesco promulga norme molto più severe sulla figura del Papa dimissionario.
Non più abiti bianchi, non più titoli, non più ambiguità. Una reazione immediata, quasi un bisogno di chiudere un’epoca, di evitare che possa ripetersi quella compresenza ingombrante, quell’ombra parallela. Segno che anche Francesco avvertiva quanto quella figura fosse potente, nel bene e nel male.Ora che Leone XIV siede sul trono di Pietro, è come se si fosse finalmente sciolto un nodo. Il Papa è tornato ad essere il Papa, nella pienezza dei simboli, nella chiarezza della voce, nella verticalità del magistero.
Non si tratta di negare il valore pastorale di Francesco, né di esaltare retoricamente un ritorno alla “Chiesa di un tempo”. Ma è evidente che una pagina si è chiusa, e se ne sta aprendo un’altra. Una pagina in cui la tradizione, lungi dall’essere nostalgia, torna a essere linguaggio vivo, carico di contenuti, in grado di orientare la comunità ecclesiale in un mondo che ha più che mai bisogno di riferimenti chiari.
Perché in fondo, nella Chiesa, nulla cambia mai del tutto. Ma nulla resta mai com’è