Editoriali | 04 giugno 2025, 08:04

Se si parla di quattrini, i numeri sono più chiari di indicatori o giri di parole. Di Carlo Manacorda*

Riferendosi alla situazione economica, la politica usa forme astratte e termini piuttosto fumosi quando sarebbe meglio, giacchè si tratta di soldi dei cittadini, usare i numeri, in modo che tutti possano facilmente capire di cosa si parla. Ad esempio ci si riferisce spesso agli “indicatori” che sono strumenti complessi ben difficilmente comprensibili ai comuni cittadini. E, per la verità, capita che spesso inciampino anche i politici. Ecco un sintetico vademecum e il caso dell'aumento delle spese per la difesa

Se si parla di quattrini, i numeri sono più chiari di indicatori o giri di parole. Di Carlo Manacorda*

Quando si parla di quattrini usando i numeri, tutti capiscono. Se si usano forme astratte (ad esempio, “indicatori”) o fumosi giri di parole, pochi comprendono. A maggior ragione, se si parla di quattrini pubblici, quelli cioè che sono di tutti i cittadini.

La classe politica predilige, tuttavia, queste forme. Riempie i propri discorsi di “indicatori” o dice solo parole. Così maschera realtà economiche pubbliche precarie e traballanti. Qualche indicazione sul tema.

Cos’è un indicatore

Non è né un fatto, né un concetto. E’ un insieme di elementi che, espressi con un numero, o lettere alfabetiche, o percentuali, o regole concorre a far comprendere un fatto concreto.

Ogni area ha i propri indicatori. In Sanità, il numero delle mortalità informa sull’efficacia degli interventi sanitari. Per l’Ambiente, sono indicatori i dati sulla qualità dell’aria. Nel Sociale, un indicatore è l’ISEE (Indicatore Situazione Economica Equivalente). Il suo valore serve per stabilire se la persona ha diritto o non ha diritto alle agevolazioni sociali. Nella Produzione industriale, sono indicatori il numero delle vendite, la soddisfazione del cliente, ecc. L’elenco degli indicatori può essere infinito.

Indicatori e area economica

Parlando di quattrini, siamo nell’area economica. L’area economica è ricca di indicatori. I più frequenti, e che s’intrecciano tra essi, sono:

  • Rating (valutazione) ― E’ un indicatore che fa capire se un’impresa o uno Stato sono in grado di pagare o meno i propri debiti. Lo determinano Agenzie ― riconosciute a livello mondiale ― sulla base dei bilanci dell’impresa o dello Stato. E’ espresso in lettere alfabetiche che partono da AAA (c.d. tripla A) per i soggetti che danno il massimo affidamento di pagare i propri debiti, per giungere, degradando, fino alla lettera D per quelli i cui bilanci fanno temere che siano cattivi pagatori.

  • Spread (differenza). E’ un indicatore della differenza di rendimento tra i Buoni del Tesoro Poliennali (BTP) italiani e i Titoli di Stato tedeschi (Bund). E’ espresso in punti base (pb). Ogni pb vale un centesimo di punto percentuale. Così, ad esempio, se i nostri BTP hanno un rendimento del 3,70% e lo spread indica 100 pb, i Bund tedeschi rendono il 2,70% (3,70% ― 100 = 2,70%). Però, per sapere se convenga investire in BTP o in Bund, non è sufficiente tenere conto soltanto dello spread. Bisogna guardare al rating. Una delle Agenzie che definiscono il rating (Fitch) dà alla Germania AAA e all’Italia BBB (8 posizioni in meno). Quindi l’Italia è meno affidabile della Germania nel restituire i propri debiti. Per avere prestiti, dovrà pagare interessi maggiori della Germania.

  • PIL (Prodotto Interno Lordo) ― E’ il valore presunto di tutti i beni e servizi prodotti in un Paese in un determinato periodo di tempo, solitamente un anno. In maniera estremamente approssimata, è quanto si ricaverebbe dalla vendita di tali beni e servizi. Quindi, è un indicatore dello stato di salute del sistema economico di un Paese. Se il PIL sale, cresce la ricchezza del Paese. Se diminuisce, diminuisce la ricchezza. Lo si rapporta, in percentuale, con il debito pubblico. Più la percentuale del debito supera il valore del PIL, meno affidabile è l’economia del Paese. Significa che il Paese ha dovuto e deve fare debiti per crescere. Per investire i loro quattrini, gli investitori tengono anche conto del debito in rapporto al PIL.

Complessità degli indicatori

Gli indicatori sono dunque strumenti complessi. Se la classe politica parla di economia citando solo indicatori, il cittadino ha molta difficoltà a capire come il Paese sta di salute.

Per la loro complessità, talora anche i politici possono inciampare sugli indicatori. Infatti, di recente, ha stupito un’affermazione del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni che, volendo rimarcare con forza, come successo del suo Governo, la discesa dello spread tra Italia e Germania, ha affermato che ormai i Titoli del debito pubblico italiano “vengono considerati più sicuri di quelli tedeschi”, dimenticando che il rating della Germania ― come detto prima ― la fa considerare ben più affidabile dell’Italia.

Anziché avventurarsi sugli indicatori, sarebbe stato meglio esprimersi, più pacatamente, con numeri. Per esempio: è vero che l’Italia paga, sui BTP, interessi del 3,60 - 3,70% e la Germania, sui Bund, solo il 2,7%, ma è altrettanto vero che gli investitori preferiscono la Germania per l’affidabilità avendo un rating molto superiore. Magari aggiungendo ― con più apprezzabile realismo ― che, se anche lo spread diminuisce, l’Italia continuerà a pagare per interessi quei 100 e più miliardi che sono indicati nel Bilancio dello Stato 2025. Tutti avrebbero capito meglio il reale stato di salute economica (non proprio florido) dell’Italia.

Bypassare il PIL con le parole

Per rendere sempre più oscure le notizie sulla finanza pubblica ― e, quindi, per non farsi capire ―, si può bypassare l’indicatore PIL con giri di parole.

E’ in corso il dibattito sull’aumento delle spese per la difesa fino al 5% del PIL chiesto dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ai Paesi dell’Alleanza NATO (North Atlantic Treaty Organization), tra i quali l’Italia. Un aumento intermedio potrebbe essere il 3,5% del PIL. Stando al valore attuale del nostro PIL (2.200 miliardi circa), l’Italia dovrebbe spendere 110 miliardi se l’aumento fosse fino al 5% del PIL, 77 miliardi con l’aumento fino al 3,5%.

Il Consiglio Supremo di Difesa ― organo previsto dall’art. 87 della Costituzione, presieduto dal Presidente della Repubblica ― ha confermato l’impegno del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni per un aumento fino al 2% del PIL nostrano, cioè fino a 44 miliardi. Nel Bilancio dello Stato ci sono però soltanto 32 miliardi. Ne mancherebbero 12.

Il Ministro della Difesa Guido Crosetto e il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano affermano, a parole, che dei 12 miliardi mancanti ne sono già stati trovati 8. Sempre che la NATO sia d’accordo ― è quindi un fatto ancora da verificare ―, gli 8 miliardi si sono trovati “grazie a nuovi metodi di calcolo”. E’ sufficiente aggiungere ai 32 miliardi già in bilancio le spese per i servizi di meteorologia e della Guardia costiera, i costi per il disinnesco degli ordigni bellici inesplosi, i soldi che si spendono per i Carabinieri e la Guardia di Finanza, le spese “civili-militari” per la cybersicurezza, per le operazioni umanitarie, per la ricerca a scopi militari ecc.. Sono tutte spese già esistenti nel bilancio dello Stato, basta raccoglierle qua e là. Per arrivare ai 44 miliardi, ne occorrerebbero soltanto più 4 (DAGOSPIA del 03/04/2025, che riporta un estratto dell’articolo di L. De Cicco per “La Repubblica”).

Conclude Crosetto: “Il nostro obiettivo non è raggiungere un risultato numerico ma quello di avere la capacità che la NATO ci chiede di dare all’Alleanza e di avere la capacità di mettere in sicurezza il Paese”. Ancora parole.

Vien da pensare che ci volesse Trump per indurre a definire quali sono le spese militari (sempre che la NATO sia d’accordo). Ma se è come dicono Crosetto e Mantovano, viene anche da pensare che il bilancio dello Stato sia un po’ pasticciato. Sempre che le parole non nascondano un espediente contabile.

Carlo Manacorda * Economista ed esperto di bilanci pubblici