Editoriali | 16 maggio 2025, 12:44

Finanza e conti pubblici tra importi oscuri e parole complicate, ignorando un diritto assoluto dei cittadini. Di Carlo Manacorda*

I conti pubblici, e il significato delle voci in essi comprese, il più delle volte sono comunicati in modo oscuro e poco comprensibile per i cittadini i quali invece, considerando che i soldi di quei conti, con le loro tasse, li generano, avrebbero il diritto assoluto di averli a disposizione in modo semplice e trasparente. Nell'articolo un breve excursus per spiegare in modo comprensibile cosa significano i vari termini, le varie grandezze, che compongono i conti dello Stato. Ovvero i nostri

Finanza e conti pubblici tra importi oscuri e parole complicate, ignorando un diritto assoluto dei cittadini. Di Carlo Manacorda*

Cosa stabilisce la legge

La legge stabilisce che la finanza e i conti pubblici devono essere trasparenti e comprensibili per tutti i cittadini. Motivo: sono i cittadini che, pagando le tasse, generano la parte maggiore della finanza pubblica. Quindi, ne sono loro i padroni. Pertanto, hanno un diritto assoluto di sapere come viene amministrata, chiunque governi. Eppure, questo diritto viene costantemente ignorato.

L’informazione

Chi governa dovrebbe essere il primo a informare i cittadini, con parole semplici, di come vanno le cose nella finanza pubblica. Invece, i suoi movimenti sono indicati (quasi sempre) in percentuali di grandezze economiche dal valore sconosciuto ai non addetti ai lavori anziché in numeri, e riferiti a fatti precisati, che tutti capirebbero. Gli importi dei movimenti della finanza pubblica restano dunque sempre oscuri.

Come risulta dal bilancio dello Stato 2025, oggi l’ammontare della finanza pubblica è di 1.220 miliardi. E’ scontato che, per chi è fuori dalle stanze governative, capire i movimenti contabili di somme così imponenti non è impresa facile. Le difficoltà crescono se l’informatore li descrive riferendosi a realtà economiche nebulose e con parole complicate.

Il PIL

La prima grandezza economica misteriosa che, più di tutte, viene richiamata per precisare l’entità di molti fatti della finanza pubblica è il PIL (Prodotto Interno Lordo).

In economia, il PIL indica il valore presunto di tutti i beni e servizi prodotti in un Paese in un determinato periodo di tempo, solitamente un anno. La consistenza è definita con calcoli molto complessi. In maniera estremamente approssimata, si può pensare che il suo valore potrebbe essere quello derivante dalla vendita di tali beni e servizi. Anche a livello internazionale, il PIL è considerato il valore che indica la ricchezza complessiva del Paese, cioè lo stato di salute del suo sistema economico, e simboleggia le condizioni di benessere di una collettività nazionale.

Debito pubblico e PIL

Nella finanza pubblica, il debito pubblico è costantemente correlato al PIL. Del debito non si indica l’ammontare in moneta ma in percentuali del PIL. Queste percentuali compaiono anche nel Documento di Finanza pubblica (DFP). Nel DPF, si prevede che il debito pubblico sia, nel 2025, il 136,6 % del PIL, nel 2026 il 137,6% e, nel 2027, il 137,4%. Tuttavia, se con la percentuale non si indica il valore del PIL, per il cittadino è impossibile sapere qual è l’ammontare reale del debito pubblico.

Il DEF dice che il Governo stima che il valore del PIL, nel triennio 2025-2027, si aggirerà intorno ai 2.200 miliardi. E allora, perché non dire subito in numeri anziché in percentuali qual è l’importo del debito pubblico? Però, informando in questa maniera, ne resta oscuro il valore in moneta. Si può dunque sempre giocare con le percentuali senza svelare che, mentre si afferma che il debito si sta riducendo, esso sta aumentando. Infatti, la Banca d’Italia, attraverso i suoi bollettini economici, informa che il debito pubblico del nostro Paese è aumentato, da febbraio 2024 a febbraio 2025, di 147 miliardi passando da 2.877 miliardi a 3.024 miliardi. E i 3.024 miliardi ― tenendo conto delle regole che si applicano in presenza di importi così elevati ― sono, grosso modo, il 136,6% del PIL, che è un valore presunto.

Spese per la difesa e PIL

In questi giorni, è vivo il dibattito sulle spese per la difesa. Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha chiesto che tutti i Paesi della NATO (North Atlantic Treaty Organization) aumentino le spese per la difesa al 5% del PIL. Pochi giorni fa, il Consiglio Supremo di Difesa ― organo previsto dall’art. 87 della Costituzione, presieduto dal Presidente della Repubblica ha confermato l’impegno già assunto dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni per un aumento fino al 2% del PIL nostrano. Parrebbe però che si chiederà che tale impegno salga al 3,5% del PIL o, addirittura, al 5%. Considerando che il bilancio dello Stato 2025 prevede soltanto 32 miliardi di spesa per la difesa (1,49% del PIL), la spesa per l’Italia aumenterà a 44 miliardi se ci si limiterà al 2% del PIL, ma a 77 miliardi se salirà al 3,5% e a 110 miliardi se l’aumento sarà del 5%.

Al cittadino si comunicano dati oscuri (sempre percentuali) indicando anche fumose risorse che esisterebbero già a copertura. Il Governo parla di unarevisione del perimetro contabile della difesa, riclassificando in modo più coerente e trasparente una serie di voci già presenti nel bilancio statale”. Più realisticamente, il Fondo Monetario Internazionale precisa che la maggior spesa può essere coperta con “aumenti delle entrate (cioè più tasse) e tagli della spesa pubblica. Per un Paese come l’Italia che già per coprire spese ordinarie ricorre al debito, non resta che questo per aumentare le spese per la difesa.

Lo “spread”

Altra parola difficile costantemente usata nelle informazioni sulla finanza pubblica è lo spread”. Esso indica la differenza di rendimento tra i Buoni del Tesoro Poliennali (BTP) italiani e i titoli del debito pubblico tedeschi, considerati dagli investitori più affidabili dei nostri. In questi giorni, lo “spread” segna, per l’Italia, una diminuzione. Quindi i BTP pagheranno minori interessi con una conseguente minor spesa dello Stato. Ma ciò non significa che questo risparmio si trasformi, immediatamente, in una risorsa monetaria spendibile. Se lo “spread” si manterrà basso, il risparmio si registrerà (forse) in futuro. Si ipotizza che tale risparmio dovrebbe ammontare a circa 10 miliardi, come comunicato dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, parlando in Senato il 7 maggio. Ma è chiaro che i 10 miliardi non sono immediatamente spendibili per sanità e scuola, come l’informazione politica sembrerebbe assicurare.

Conclusioni

Anche se camuffato in percentuali del PIL, il debito pubblico è fatto di quattrini da restituire. Chi oggi fa debito pensa, serenamente, che saranno altri a doverlo restituire.

Lo “spread” può essere alto o basso, ma le spese si fanno (si dovrebbero fare) soltanto se le casse dello Stato contengono già monete sonanti derivanti dalla diminuzione dello “spread”.

Se questi fatti non si dicono chiaramente, i cittadini non potranno mai conoscere qual è lo stato reale delle finanze pubbliche esposte nei conti pubblici. Stato che non è roseo (ma questa è un’altra storia).

Carlo Manacorda * Economista ed esperto di bilanci pubblici