Messaggi in bottiglia | 29 ottobre 2021, 08:25

By, by Intel a Torino? Facciamo un po' di chiarezza. Di Marco Corrini*

L'impressione è che se Intel si allontana è anche perchè tutti gli attori piemontesi della vicenda, dalla politica all'industria, si siano mossi in ordine sparso. Vale però la pena di fare chiarezza su questa operazione, che molti hanno interpretato come il primo passo per rendere il comparto tecnologico italiano autonomo ed indipendente dal sol levante. In realtà non sarà affatto così, e sopratutto non lo sarà per il mercato dell'automotive, tanto importante per il Piemonte

By, by Intel a Torino? Facciamo un  po' di chiarezza. Di Marco Corrini*

L'opportunità di avere a Torino uno stabilimento Intel si sta allontanando.

La ragione é che tutti gli attori piemontesi di questa sceneggiata, a partire dai politici, fino ai rappresentanti degli industriali, invece di fare squadra, hanno proceduto in ordine sparso, alla ricerca di una effimera visibilità personale.

Peccato, perché a parte i nuovi posti di lavoro che si sarebbero creati sul territorio, la presenza di un investitore di prestigio, avrebbe potuto fare da traino per altre multinazionali, rilanciando il sistema piemontese che da anni vive una crisi industriale profonda.

Tant'è, chi é causa del suo mal pianga se stesso, dicevano i nostri vecchi.

Vale però la pena di fare chiarezza su questa operazione, che molti hanno interpretato come il primo passo per rendere il comparto tecnologico italiano autonomo ed indipendente dal sol levante.

In realtà non sarà affatto così, e sopratutto non lo sarà per il mercato dell'automotive, tanto importante per il Piemonte.

La carenza dei semiconduttori nel 2021 ha provocato ai produttori di automobili un danno stimato in 220 miliardi di dollari, con ripercussioni drammatiche su tutta la filiera.

L’Europa è passata da una capacità produttiva pari al 44% del mercato globale di semiconduttori nel 1990, ad appena il 9% nel 2021. Una condizione di dipendenza strategicamente inaccettabile, per cui in sede UE hanno deciso di recuperare terreno programmando di arrivare a produrre sul territorio il 20% dei semiconduttori mondiali entro il 2030, cosa niente affatto facile e che richiede enormi investimenti (il famoso chips act nominato da Draghi).

Tuttavia, dire che la UE deve produrre il 20% dei chip mondiali é fuorviante, perché il piano riguarda solo quei chip utilizzati dall'industria manifatturiera comunitaria, e il distinguo non é da poco.

I più grandi produttore mondiali di chip sono la taiwanese TSMC, e la coreana Samsung, in grado di produrre chip con nodo di processo dai 5 nm in giù.

Il Boston Consulting Group ha calcolato che se si volesse fare concorrenza a questi colossi su questa tecnologia, allestendo produzioni in occidente, si dovrebbe investire l'esorbitante cifra di 1000 miliardi di dollari.

In realtà però, in Europa non esistono fabbriche di smartphone che richiedono i processori di ultima generazione realizzati con nodi a 5 nm o inferiori.

La maggior parte dei chip di cui oggi ha bisogno l’industria europea viene realizzata con tecnologie consolidate, dai 14-28 nm in su, e il fabbisogno tipico delle nostre industrie richiede MCU e controller prodotti, con processi a 40, 65 o 90 nm, o ancora più vecchi.

Sono tecnologie che potremmo benissimo produrre in Europa ma che oggi é più conveniente far produrre a Taiwan, in Corea o in Cina, a prezzi più vantaggiosi.

Lo stesso CEO di Intel (che é un grosso cliente di TSMC) ha affermato che fare produrre i chip in Asia costa dal 20 al 40% in meno rispetto agli USA o all’Europa, e questo la dice lunga, anche al di là degli investimenti necessari a nuovi insediamenti produttivi.

Malgrado ciò l'intenzione di Intel di aprire alcuni stabilimenti in Europa, é reale, con un investimento previsto vicino ai 100 miliardi di euro. Perché?

Pat Gelsinger non é uno stupido e ha chiesto la disponibilità dei partener europei a partecipare in modo massiccio agli investimenti necessari, oltre ad altre condizioni di favore, con particolare riferimento al costo del lavoro e al prezzo dell’energia.

Gli impianti di produzione dei semiconduttori, infatti, necessitano di grandissime quantità di energia e la bolletta elettrica pesa in modo determinante sui costi di produzione.

In questo quadro si colloca anche la trattativa per avere uno stabilimento Intel in Italia.

Come era logico aspettarsi in un momento di grave carenza di chip come l'attuale, le proposte di Gelsinger hanno scatenato una feroce competizione tra i partner europei.

Secondo la  Reuters a spuntarla sarebbe la Germania che dovrebbe ospitare un mega stabilimento per la produzione di semiconduttori, mentre all’Italia verrebbe destinata una fabbrica più piccola, un impianto dedicato al packaging, che creerebbe un migliaio di posti di lavoro diretti.

Il governo italiano sarebbe pronto a finanziare parte dell’investimento e ad offrire condizioni favorevoli a Intel anche per quanto riguarda il costo del lavoro e quello dell’energia.

Il valore dell’investimento è valutato in 4 miliardi di euro, tuttavia non si sa quanto sarà a carico di Intel e quanto a carico delle finanze pubbliche italiane.

L’Italia comunque avrebbe buone probabilità di aggiudicarsi anche uno dei Centri di Ricerca che Intel intende aprire in Europa.

Tutte queste manovre però non hanno nessun effetto sull’attuale carenza di semiconduttori.

Un impianto di questo tipo infatti, richiede almeno 4 anni per essere operativo. Si parla quindi del 2025/2026 come data di entrata in produzione, quindi quando l'emergenza attuale sarà certamente finita.

Solo in Europa infatti, nei prossimi 12 mesi diventeranno completamente operativi i nuovissimi impianti di Bosch a Dresda e di Infineon a Villach, ed entro il 2023 entreranno in produzione: il nuovo stabilimento R3 di STMicroelectronics ed i nuovi impianti di GlobalFoundries a Dresda.

Insomma, entro il 2025 si prevede che l'offerta di chip supererà di gran lunga la domanda.

Quello di Intel sembra quindi essere un investimento ad alto rischio, che potrebbe aver bisogno di un sostegno pubblico costante per poter competere con la concorrenza asiatica, oltre al contributo richiesto dall'azienda ai governi per tutta la fase di start up.

In definitiva la scelta è tutta politica, ed il costo per le finanze pubbliche é giustificato unicamente dall'obiettivo di rendere l'Europa maggiormente autonoma in un settore sempre più strategico.

Ne vale la pena? Giudicatelo voi.


*Marco Corrini, analista di marketing e scrittore