Nei giorni scorsi, i mezzi d’informazione hanno dato ampio risalto a situazioni di crisi che si sono verificate in Gran Bretagna: supermercati con scaffali vuoti e privi di rifornimenti, pompe della benzina in secco. Le crisi sono state determinate dalla mancanza di autisti dei mezzi che trasportano le merci. In breve, è saltato il sistema del trasporto su gomma. Causa della mancanza di autisti: l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa. Migliaia di autisti provenienti da Paesi dell’Unione europea soprattutto dell’Est, con la Brexit hanno perso il diritto di lavorare in Gran Bretagna.
Le associazioni del settore “trasporto merci” avvertono però che anche in Italia la situazione non è diversa. Stimano che da noi mancheranno, nel prossimo biennio, dai 5mila ai 17mila autisti, benché il loro guadagno possa arrivare fino a 3mila euro netti al mese. Ci sono sempre meno giovani che hanno voglia di mettersi alla guida di un Tir. Il lavoro scomodo viene scartato. Le associazioni chiedono al Governo un impegno ad affrontare questo problema, anche qualificando per il trasporto merci lavoratori coinvolti in situazioni di crisi aziendali.
Il Bollettino del Sistema informativo Excelsior di settembre 2021 (Unioncamere e Anpal) presenta un ampio quadro dei fabbisogni di lavoratori per le imprese. I numeri sono importanti e impressionanti, in aumento rispetto ai mesi precedenti per effetto della ripresa economica. Al primo posto per i fabbisogni si trovano le industrie della meccatronica; seguono quelle metallurgiche, tessili, dell’abbigliamento e delle calzature. Sempre più difficili da reperire fonditori, saldatori, lattonieri, calderai, fabbri. Difficili da trovare anche tecnici informatici, telematici, della distribuzione commerciale, della gestione dei processi produttivi di beni e servizi, ingegneri e specialisti in scienze matematiche e informatiche.
Un recente studio (30.09.2021) di Censis/Confcooperative analizza il cosiddetto “mismatch” sul mercato del lavoro, ovvero la mancanza di incastro tra domanda e offerta. Un fenomeno che si traduce in centinaia di aziende che non trovano chi assumere e in migliaia di lavoratori che non trovano impiego. Secondo lo studio, sono 233mila i lavoratori che le imprese non riescono a trovare. Quali le aree per le quali si ricercano specifici profili professionali? Costruzioni e servizi di informazione e comunicazione; attività artistiche, sportive e di intrattenimento, dell’alloggio e della ristorazione; finanza e servizi alle imprese e attività manifatturiere. Lo studio rileva che se le imprese fossero riuscite ad assumere tutto il personale di cui hanno bisogno, nel 2021 la crescita del PIL avrebbe potuto aggiungere un’ulteriore percentuale dell’1,2% passando dal 5,9% al 7,1%. In termini economici, si stanno perdendo 21 miliardi. Leggendo tutte queste notizie, vien naturale concludere che il lavoro non manca, ma mancano i lavoratori.
Del tutto evidente che la soluzione di questi problemi ― come sollecitato anche dagli operatori di settore ― non può che avvenire in sede politica. È la classe politica che, per prima, deve farsi carico dei problemi. E poi assumere, per ciascuno, i necessari provvedimenti di regolamentazione affinché seguano le iniziative e gli interventi di tutti gli altri soggetti che, a diverso titolo, sono impegnati nei processi occupazionali del Paese.
Non sembra che, attualmente, il dibattito politico si occupi particolarmente di questi argomenti. Il tema della sua discussione è se mantenere o non il reddito di cittadinanza, quello strumento che, al momento dell’approvazione, un euforico on. Luigi Di Maio proclamava che “aboliva la povertà”. Se correttamente applicati ― situazione che non sembra proprio essersi verificata nel nostro Paese ―, sostegni di questa natura hanno sicuramente un valore sociale. Tuttavia si ha il sospetto che molti li sostengano per aumentare il consenso elettorale nei loro confronti. Portano cioè voti.
Per gestire questa materia, si sono create anche curiose figure professionali: i cosiddetti navigator (2700 assunti in questa funzione), dei quali però non c’è traccia tra le categorie di lavoratori ricercate dal sistema produttivo. Ma questi navigator non erano sorti proprio per favorire il “mismatch”? Hanno apportato contributi in questo senso? Dai dati che si conoscono, emerge un quasi totale fallimento.
Vero è che, in materia di occupazione ― almeno finora ―, si sono privilegiate politiche passive di tipo assistenziale, certamente più facili da affrontare. Non c’è neppure l’impegno di trovare le risorse. Le forniscono i contribuenti, in particolar modo i pensionati. Ben superiore è l’impegno per realizzare politiche attive del lavoro. Qui le risorse non possono essere soltanto quelle fornite dai contribuenti. Occorre trovarne altre e di importo rilevante, magari facendo tagli alla spesa pubblica improduttiva e degli sprechi, ben sapendo che si entrerà in conflitto con chi ne beneficia.
Occorre inoltre intervenire sui potentati della scuola fino ai massimi livelli delle Università, chiedendo loro se hanno programmi per rispondere alla domanda di lavoratori da parte del sistema produttivo, e incentivandoli a realizzarli. Se si mettessero in atto azioni di questo genere, forse si potrebbe ridurre la massa dei 2,3 milioni di disoccupati e dei 3 milioni ― dei quali metà donne ― dei cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training), cioè di quelle persone, soprattutto di giovane età, che non hanno né cercano un impiego e non frequentano una scuola o corsi di formazione o di aggiornamento professionale. E ci sarebbero anche benefici per l’economia.
Sembra che ora il rimedio universale per risolvere anche questi problemi si chiami Recovey Plan o Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Gli interventi previsti dal Piano si svilupperanno di qui al 2026. Frattanto, chi creerà i lavoratori per soddisfare i bisogni di oggi nel lavoro? Per ora resta un mistero.