La Legge di Bilancio 2026 sta incendiando il dibattito pubblico, tra consuete e sterili polemiche e qualche novità.
Partiamo con quanto c’è di consolidato, al netto delle modifiche che ancora verranno apportate: questa finanziaria non segna una svolta, ma consolida un percorso.
È una manovra di transizione, costruita per mantenere la rotta (filo atlantista ed europocentrica) in un contesto di evidente rallentamento economico, e in attesa della piena revisione del Patto di Stabilità europeo.
Nessuna nuova tassa, diversamente da quanto piace sempre sostenere alle opposizioni (nell’analisi di qualsiasi manovra e in qualsiasi contesto) ma una forte pressione sulla spesa. Le coperture della manovra arrivano soprattutto dalla revisione dei capitoli ministeriali e dal riordino dei fondi PNRR, senza incrementi fiscali diretti. Il governo si impegna a mantenere il deficit sotto il 3% del PIL nel 2026, come previsto dal Documento Programmatico di Bilancio e a ridurlo progressivamente fino al 2,5% entro il 2028.
Si tratta, nelle intenzioni e nei proclami, di un esercizio di equilibrio complesso: spendere abbastanza per stimolare la crescita, ma non tanto da rischiare una deviazione dagli obiettivi europei. In questa logica, la manovra 2026 appare come un bilancio di stabilizzazione, prudente nei conti, ma anche nel coraggio politico.
Il rischio è che l’eccesso di prudenza si trasformi in immobilismo. Prudenza che però, va detto, non riguarda tutti i settori. La manovra infatti prevede un aumento significativo della spesa militare italiana, destinando oltre un miliardo di euro in più per armi e difesa, con un totale che potrebbe raggiungere i 35 miliardi di euro considerando sia le spese dirette che quelle indirette. Questa tendenza è interpretata da alcuni -e non a sproposito a parere di chi scrive- come un’"economia di guerra", con decisioni che privilegiano gli investimenti in armamenti a scapito di altri settori.
La spesa militare "pura" è stimata intorno ai 33,9 miliardi di euro per il 2026, con un aumento di circa il 2,8% rispetto al 2024. L'acquisto di nuove armi costituisce quasi un terzo del bilancio del Ministero della Difesa, con circa 9,9 miliardi di euro destinati a tale scopo. Rispetto al 2022, la spesa per gli investimenti in armamenti è cresciuta del 60%.
I sostenitori dello stanziamento argomentano che, anche se l'aumento è consistente, la spesa militare in rapporto al PIL (1,58% per il 2026) rimane al di sotto dell'obiettivo del 2% fissato dalla NATO. Ciò non toglie che, stanti le condizioni di reale e palese difficoltà del Paese difficilmente celabili, questa cifra potrebbe essere dirottata altrove (anche perché resta l’annoso problema del da chi è da cosa ci stiamo difendendo? E, ancora, se fossimo davvero sotto imminente minaccia di qualcuno pensate realmente che questo qualcuno ci darebbe il tempo di riarmarci?) come ad esempio per il nostro Stato sociale, Sia inoltre detto che, sommando altre voci di spesa non incluse nel bilancio della difesa, come gli investimenti in infrastrutture militari e le quote di compartecipazione in ambito UE, il totale dello stanziamento potrebbe avvicinarsi ai 35 miliardi di euro.
A questo tema annoso ne aggiungiamo un altro, ovvero la scandalosa polemica che verte, sostanzialmente, sul tema della ricchezza. Secondo alcuni esponenti di sinistra (e si ricorda al lettore che chi scrive non ha mai avuto appartenenza politica, si limita ad analizzare fatti e posizioni) che parlano dall’alto dei propri privilegi, chi guadagna 45mila Euro all’anno (tale è infatti la fascia di reddito dei beneficiari del taglio dell’Irpef) sarebbe ricco. Beh, siccome la prima dote per un politico è la coerenza tra ciò che dice e ciò che fa, siamo certi che tra le proposte di modifica alla legge di bilancio, detto esponente proporrà il taglio degli stipendi ai parlamentari a 45 mila euro annui.
Perché è evidente che se a 45 mila euro l’anno si è ricchi, loro sono dei super super ricchi e questo non è accettabile, specie per la sinistra.



