Editoriali | 22 agosto 2025, 22:22

32mila delinquenti qualunque. Di Lorenza Morello*

La notizia del gruppo da 32mila iscritti dove gli utenti hanno pubblicato le foto di mogli e fidanzate senza il loro consenso disgusta ma, in fondo, non stupisce. E non stupiranno neppure, in caso qualcuna di quelle donne decida di andare a chiedere giustizia in un tribunale, le domande della difesa: “Signorina, ma se lei non era d’accordo perché si è fatta fotografare?”. Così sarà lei a dover dimostrare la propria “innocenza”. Una vera e propria inversione dell'onere della prova. Insomma, in parole povere, una vergogna

32mila delinquenti qualunque. Di Lorenza Morello*

Ho appreso la notizia del gruppo da 32mila iscritti dove gli utenti hanno pubblicato le foto delle partner senza il loro consenso con un po’ di disgusto, ma senza stupore.

E questa, forse, è la cosa più amara.

Il fatto, ovvero, che il mondo in cui viviamo ci ha ormai resi “pronti a tutto e incapaci di stupirci ancora”.

Partiamo da un dato, parametrato all’italica penisola, perché i numeri di per sé dicono poco, ai più, così cercherò di rendere visibile a tutti la proporzione: 32mila persone sono più di 6 comuni italiani. Eh sì, perchè il 70,5% dei comuni ha meno di 5.000 abitanti. Immaginate, quindi, i cittadini di 6 comuni, tutti uomini, dediti a osservare o condividere le immagini delle proprie compagne o mogli.

Sapete quale è la prima reazione dell’uomo medio che abita nel comune medio italiano? Un risolino e poi il desiderio di vedere quelle immagini.

Quello è, ed è inutile che lo neghiate.

Appena si è appresa la notizia i motori di ricerca sono stati invasi da utenti che cercavano se qualcosa fosse ancora disponibile. Ma Facebook, il giustiziere della notte, l’aveva già rimossa.

…chissà se non se ne fosse mai accorto prima, visto il tenore delle didascalie che, pare, indicassero chiaramente che le donne ritratte non ne sapevano nulla. Ma quella della lotta ai cattivi da parte di Zuckenberg è già storia conosciuta.

E, dopo l’amara scoperta, non si può non pensare a quelle che saranno le domande nelle aule di giustizia alle donne che avranno la voglia, il coraggio e la forza di denunciare. Già me li sento i validi avvocati della difesa incalzare le vittime con: “Signora/ina, ma se lei non era d’accordo perché si è fatta fotografare?”; “Beh, se ha permesso che la foto venisse scattata in fondo piaceva anche a lei. Si eccitava mentre il suo compagno lo faceva? Le riguardavate insieme?” e per poi finire con “…e come fa a dimostrare che lei non era d’accordo?”.

Insomma, un’inversione dell’onere della prova con tutti i crismi. Dove non è l’uomo che deve dimostrare che la donna non fosse a conoscenza delle diffusione a terzi delle immagini, bensì il gentil sesso a dover dimostrare la propria estraneità ai fatti. E sapete perché? Perché, piaccia o non piaccia, nella nostra povera patria (ma la sorte di noi donne in questa è diffusa in larga parte del globo) ad una donna non è concesso essere al pari di un uomo nemmeno a letto. Semmai ce lo possono far credere, fingendo anche di essere sottomessi -coloro che vogliono una “dominatrice” (che è un pensiero talmente lontano dalla nostra società da diventare, appunto, fantasia erotica) ma possiamo esserlo solo e soltanto per il tempo e per il modo che all’uomo di turno tutto ciò sta bene. Dopodiché ritorniamo al ruolo che socialmente ci è ancora destinato, quello di comprimarie (quando va bene) e di comparse da prendere esibire e barattare, senza nemmeno esserne rese consapevoli. Perché il concetto di amore (che qui viene erroneamente tirato in ballo) ma più propriamente quello delle unioni tra i due sessi ha ancora troppo a che fare con il concetto di proprietà e possesso. Sei la “mia” compagna (di una notte o di una vita fa poca differenza) e in quanto mia io dispongo di te come meglio credo.

La mente corre al caso Gisèle Pelicot, la donna che, nel 2020, a seguito di una convocazione in caserma per un reato del coniuge, ha scoperto di essere stata vittima di ripetute violenze sessuali tra il 2011 e il 2020 per opera di uomini (51 quelli identificati, ma si tratta di una settantina in totale) reclutati da quello che all’epoca era suo marito, Dominique Pelicot. Gli uomini venivano contattati tramite il sito francese Coco.fr (oggi chiuso) e invitati a fare sesso con la donna che versava in stato di incoscienza – era Dominique a somministrarle i farmaci durante i pasti. Si tratta di individui tra i 26 e i 70 anni, rappresentativi di tutti gli strati della società francese: si va dal giornalista al pompiere, dal falegname al militare di professione. Una realtà così variegata che i giornali francesi hanno usato l’espressione di Monsieur tout le monde, signor chiunque, per dire che quegli uomini, che non ricevevano alcun compenso ma che dovevano attenersi scrupolosamente alle regole imposte da Dominique Pelicot, sono persone qualunque, padri di famiglia, colleghi di lavoro, vicini di casa. Così come i nostri 32mila valorosi signori chiunque di Facebook. Pervertiti, delinquenti, qualunque (perché poi bisogna imparare a chiamare ciascuno col proprio nome).

Da quando sono uscite le prime notizie, più volte mi è capitato di cliccare e aprire gli articoli che la riguardavano Giselle, intendo, e più volte li ho richiusi: come se una specie di pudore mi impedisse persino di procedere nella lettura; come se i dettagli raccapriccianti offerti dalle testimonianze non fossero soltanto parole sullo schermo ma una lordura insopportabile e contaminante. Tuttavia, sbirciando e ritraendomi, non ho potuto, in quel miscuglio perverso di curiosità ed empatia, non soffermarmi sull’aspetto mite e deciso di Gisèle Pelicot. Il caschetto con la frangetta, ordinato, a nascondere la fronte; gli occhiali tondi, scuri, a proteggere gli occhi: sembrano essere queste le uniche cortine che la settantaduenne francese ha deciso di tenere calate tra lei e il mondo. Rimuovendo i diaframmi che la separano dallo sguardo dei giornalisti, degli avvocati e soprattutto degli imputati, questa donna ha saputo dare corpo allo slogan “La vergogna deve cambiare campo”. 

Questo devono tenere bene a mente le donne che decideranno di perseguire il marito/compagno nella nostrana vicenda di Facebook (dove, se non altro, ad oggi non sono emersi profili di sedazione e violenza come nel caso Pelicot, ma il reato esiste comunque): rimandare la vergogna al mittente significa rovesciarla. Questo ribaltamento è un imperativo dei nostri tempi, sostiene il filosofo francese Frédéric Gros nel suo lavoro “La vergogna è un sentimento rivoluzionario” in cui afferma:“Cambiando campo, la vergogna cambia anche natura: non è più l’angoscia per qualcosa d’innominabile che mi accade, bensì la proclamazione pubblica dell’ignominia dell’aggressore”. Il libro ricostruisce una genealogia e una tassonomia della vergogna, e oltre a dedicare molte pagine alla vergogna sociale, declina anche il particolare tipo di vergogna legato alla sfera sessuale. Didier Eribon ebbe a dire che era stato più facile per lui scrivere della vergogna dell’omosessualità che di quella delle radici proletarie. 

Se prendiamo l’etichetta della vergogna sessuale e la applichiamo alle donne, però, le cose assumono una sfumatura differente. Per secoli lo stupro consumato nelle società d’onore macchiava la reputazione delle donne violate, e stava ai mariti, che detenevano la “proprietà” delle mogli, vendicare quel delitto. Oppure il gesto riparatore doveva provenire dalla donna stessa. Certo non poteva restare impunito. 

Ci auguriamo, che nemmeno questa vicenda rimanga impunita.

*Lorenza Morello, Giurista d’impresa, presidente nazionale APM