Arriva l’autunno. Per il Ministro dell’Economia e delle Finanze arriva il tormentone della Manovra finanziaria. Deve cioè far quadrare le entrate e le spese dello Stato necessarie per sostenere la vita e lo sviluppo del Paese nell’anno dopo. Così è avvenuto anche quest’anno. Il Ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha dovuto mettere mano agli sgangherati conti pubblici italiani (3mila miliardi di debito pubblico, 100 miliardi da pagare solo per interessi, necessità di fare altro debito almeno tra i 200 e 300 miliardi per coprire il buco della differenza tra entrate e spese) e cercare di dargli un’aggiustata per il 2025, e almeno per i due anni seguenti. Che fare?
Di tagliare gli enormi sprechi del denaro pubblico (che poi è denaro dei cittadini), non se ne parla proprio. Anzi, il Ministro deve arginare gli appetiti smisurati dei Colleghi di Governo cui poco importa il disastro dei conti pubblici. “L’importante è che vengano soddisfatte le mie richieste fondate o infondate che siano”. Gli “inviti a ridurre le spese” hanno sempre avuto un seguito quasi nullo.
E allora, per trovare quattrini, si immaginano tasse stratosferiche da applicare ai miliardari mondiali dell’informatica, oppure di spremere gli extraprofitti di banche e assicurazioni, tra l’altro riferendosi a grandezze che, economicamente, non esistono: il bilancio di un’azienda chiude con profitti se i ricavi hanno superato i costi. Le norme contabili non contemplano extraprofitti (sarebbero tali se derivassero da operazioni illecite ma, in questo caso, non sarebbe il Ministro dell’Economia a doversene occupare ma la Giustizia).
Dopo i voli tra le nuvole, si scende a terra. Occorrerebbero 25 miliardi per distribuire un po’ di mancette, magari giustificate ma comunque non prive di “puzza elettorale”. Si confida in un aumento (per ora ipotetico) delle entrate dalle tasse di 19 miliardi. Poi si guarda ai consueti interventi: aumento delle sigarette, qualche tassuccia (accise) su alcuni beni e, perché no, con un po’ di demagogia, aumento delle tasse sulle imprese. Naturalmente, si metteranno nel piatto le (mai raggiunte) entrate favolose dalla lotta all’evasione fiscale e dalla vendita di beni del patrimonio dello Stato. Si concluderà che tutti devono fare sacrifici: sono imposti dalle norme economiche dell’Europa.
È a questo punto che, sentendo le proposte del Ministro per far quadrare la Manovra finanziaria e guardando all’Europa, sorgono alcune domande.
Esiste l’organismo Tax Justice Network (in italiano Rete di giustizia fiscale). È un gruppo internazionale di ricercatori che svolgono studi per dimostrare gli effetti nocivi sulle finanze degli Stati che derivano dal non pagamento delle tasse nella misura dovuta.
Questo organismo, pochi giorni fa, ha pubblicato la classifica dei cosiddetti “Paradisi fiscali”, cioè i 20 Paesi che, a livello mondiale, impongono meno tasse soprattutto alle società. In testa alla classifica ci sono le Isole Vergini, Cayman e Bermuda. Poi vengono Svizzera, Singapore e Hong Kong. Ma, al 7° posto, c’è l’Olanda, al 9°, l’Irlanda, al 10°, il Lussemburgo, al 14°, Cipro, al 19° la Francia e al 20° Malta. Cioè sei Paesi che fanno parte dell’Europa Unita.
O bella! Ma l’armonizzazione fiscale ― quel procedimento che rende simili le regole sulle tasse degli Stati membri così da evitare differenze nel tassare merci, persone e capitali in base alla nazionalità ― non è uno dei cardini dell’Unione europea per unire gli Stati che la compongono? Da sempre, l’Europa ripete che va fatto ogni sforzo per combattere elusioni (i comportamenti di chi, pur rispettando la legge, sfrutta le situazioni per pagare meno tasse) ― ed evasioni fiscali.
I Paradisi fiscali in Europa non sono però una novità. Molte società italiane li conoscono da tempo. FIAT fu la prima a trasferire la sede in Olanda (2014). Poi si sono aggiunte, MediaForEurope (gruppo Mediaset Italia e Spagna), Cementir (gruppo Caltagirone), Eni, Enel, Exor, Ferrero, Prysmian, Saipem, Telecom Italia, Illy Luxottica Group e molte altre. Sconcerta che, nei Paradisi fiscali, ci siano anche aziende dello Stato: Enel, Eni, Telecom. Si stima che, attraverso i Paradisi fiscali, le aziende italiane che vi risiedono sottraggano annualmente allo Stato italiano 7 miliardi di tasse.
Perché si sceglie l’Olanda? Tra gli Stati che compongo l’Europa, è il primo Paradiso fiscale. Lì c’è meno burocrazia e si pagano meno tasse. La tassazione sui guadagni di un gruppo d’imprese (holding) è quasi nulla. Ciò vuol dire che i guadagni restano quasi interamente nelle tasche dei proprietari delle aziende. Inoltre, guadagni che affluiscono dalle controllate estere non pagano tasse.
Tiriamo le somme. L’armonizzazione fiscale è un compito del Parlamento europeo. Piuttosto che ripetere tante chiacchiere vuote sulle “bellezze” (astratte) dell’Unione europea, i Governi insistano perché si arrivi all’armonizzazione fiscale, sempre annunciata ma mai attuata. Forse così l’Europa sarebbe più unita.
Il Ministro Giorgetti, qualora già esistesse questa armonizzazione, per far quadrare la Manovra finanziaria, anziché pensare, tra l’altro, ad aumentare le tasse alle imprese ― ovviamente alle poverette che hanno sede in Italia ― si troverebbe qualche miliardino che gli farebbe molto comodo.
E perché, per una patrimoniale, non si potrebbero considerare le ricchezze (ma tutte) di queste società poco patriottiche?
Tax Justice Network però afferma che “i sistemi fiscali consentono di creare una società giusta, ma i Governi hanno creato i Paradisi fiscali per dare la priorità ai più ricchi. Ciò alimenta le diseguaglianze, favorisce la corruzione e mina la democrazia”.