Editoriali - 14 maggio 2020, 15:54

Coronavirus e rigurgiti di statalismo sovietico. Di Carlo Manacorda*

“Lo Stato faccia lo Stato e lasci che sia l’imprenditore a fare impresa. Se gli statalisti sono per uno Stato protagonista, non si attacchino a modelli ormai bocciati dalla storia. Si adoperino, semmai, affinché lo Stato eserciti le sue funzioni in maniera efficiente”. L'economista ed esperto di bilanci pubblici Carlo Manacorda confuta la tesi, recentemente espressa dalla sociologa Chiara Saraceno, secondo cui in Italia ci sarebbe bisogno di più Stato

Coronavirus e rigurgiti di statalismo sovietico. Di Carlo Manacorda*

Per poter agevolare la ripresa dell’economia caduta in recessione a causa dell’epidemia Coronavirus, la Commissione europea ha approvato modifiche temporanee alle regole sugli “aiuti di Stato”, impediti dalle norme dei Trattati dell’Unione. Gli Stati potranno ora intervenire, finanziariamente, a sostegno delle imprese in varie forme comprese le partecipazioni al capitale. Le misure a sostegno non potranno comunque superare 800.000 euro. Il Ministro dell’economia Roberto Gualtieri attendeva questo “via libera” per completare il “decreto rilancio” da 55 miliardi nella parte in cui prevede gli aiuti alle imprese, compresa la partecipazione dello Stato alla ricapitalizzazione. Che quindi ci sarà, benché attraverso la Cassa Depositi e Prestiti.

Il “via libera” fa esultare le frange della sinistra evidentemente ancora ispirate a principi di statalismo sovietico. Il vicesegretario del PD Andrea Orlando, parlando dei suddetti interventi dello Stato, aggiunge infatti che, se lo Stato mette soldi in un’impresa, deve avere rappresentanti nei suoi organi di governo. In soldoni, deve partecipare alla sua gestione. Sempre in tema, verosimilmente a sostegno della tesi di Orlando, taluno (Chiara Saraceno, Ma in Italia c’è bisogno di più Stato, La Stampa 09.05.2020) ha brutalmente affermato che ai liberisti: ”Piace solo lo Stato che finanzia a fondo perduto le imprese e interviene quando sono in difficoltà, ma senza mettere il naso, fidandosi dell’intelligenza, ahimè indimostrata, del mercato”.

Questo breve scritto non intende approfondire la questione dell’utilità o non della presenza dello Stato nell’economia. D’altro canto, questa questione è dibattuta da oltre 250 anni e le posizioni sono ormai sufficientemente chiarite (a meno che chi le richiama le ignori, o voglia ignorarle). Agli strenui sostenitori dei vantaggi della presenza dello Stato nell’economia, pare però sufficiente ricordare gli infiniti e immensi disastri causati da questa presenza, con fiumi di sprechi di denaro pubblico ― purtroppo, ahinoi,  pagati dai cittadini ―. Un esempio sempre attuale? L’Alitalia, la Compagnia aerea di bandiera. Ma la storia delle partecipazioni statali è ben ricca di casi in materia.

Vero è che, ancora prima di esaminare il suddetto problema in ottica strettamente economica, occorre dire a quale modello di Stato si fa riferimento. Se il riferimento è allo Stato totalitario, protagonista assoluto in ogni settore (modello praticato da tutti i regimi della destra e della sinistra), l’opzione è per la sua presenza anche nell’economia. Se, per contro, la scelta è per lo Stato liberal-democratico, cioè quello che rispetta e tutela le libertà dei cittadini in tutte le loro espressioni, si rimarca la dicotomia tra funzioni istituzionali dello Stato (ordine pubblico, istruzione, amministrazione della giustizia, ecc.) a lui riservate, e mercato, luogo (anche inteso virtualmente ― e, checché ne pensi qualcuno, dotato di intelligenza ―) dove avvengono gli scambi economico-commerciali attraverso la legge della domanda e dell’offerta. Lo Stato deve stare fuori dal mercato. Tra l’altro, questa posizione trova anche conferma nelle regole europee (benché ora temporaneamente attenuate, come detto all’inizio dello scritto) che, intendendo assicurare la libera competizione tra gli operatori economici, vietano gli “aiuti di Stato”.

Volendo ora fare alcune riflessioni sull’opportunità o non di una presenza dello Stato nell’economia, se non ci si muove da ideologie preconcette e senza richiamare i complessi approfondimenti dottrinari del problema, sembrano sufficienti poche considerazioni elementari per escluderla.

Per fare impresa proficuamente, occorrono capacità e professionalità specifiche ― che devono anche evolversi costantemente per reggere le sfide sempre più difficili del mercato ―. Lo Stato ― o meglio la classe politica e amministrativa che lo rappresenta ― non possiede queste capacità e professionalità. Non le possiede la classe politica, e sarebbe insensato cercarle al suo interno. La classe politica acquisisce il potere di governo non sulla base di un curriculum che ne evidenzi attitudini manageriali, ma in virtù del consenso elettorale che ottiene indipendentemente dai titoli posseduti (e la proliferazione e polverizzazione dei partiti politici danno spazio, frequentemente, a soggetti che vanno a comporre la classe politica, ma che manifestano la totale inettitudine ad esercitare il complicato governo dei problemi di uno Stato). In ogni caso, acquisito il potere di governo, è la stessa classe politica che sostiene che la sua visione dei problemi è diversa da quella dei tecnici. Anzi, orgogliosamente afferma che è ben più ampia dovendo tenere conto di interessi generali e non di fatti specifici.

Anche la classe amministrativa pubblica, in generale, non è preparata per lo svolgimento di compiti gestionali. La sua selezione avviene non attraverso valutazioni delle professionalità ed eventuali capacità manageriali possedute, ma tenendo conto di elementi burocratici (o, ancor peggio, di segnalazioni clientelari). Di talché, buona parte di essa ignora anche le regole elementari della conduzione aziendale. E questo prova le conseguenze fallimentari che si verificano quando lo Stato ha voluto o vuole fare l’imprenditore.

E c’è di più. Mentre l’imprenditore è ben consapevole dei rischi in cui può incorrere nella conduzione dell’impresa, e pone quindi la massima attenzione per evitarli onde non subire i danni (economici e d’immagine) che gli deriverebbero se si verificassero, il funzionario pubblico gode di uno stato assoluto di “irresponsabilità” poiché nessun danno gli deriva da eventuali sue scelte gestionali sbagliate. In altre parole, è “insensibile” rispetto al funzionamento dell’azienda. E neppure la moltitudine dei controlli che l’Italia possiede nell’area pubblica ha mai censurato e sanzionato manifestazioni di questa insensibilità. Le conseguenze dei fallimenti dello Stato gestore alla fine li paga sempre e soltanto il cittadino con aumenti di tasse e balzelli.

C’è una regola più che consolidata del vivere comune che insegna che ciascuno deve fare il suo mestiere. Quindi, lo Stato faccia lo Stato e lasci che sia l’imprenditore a fare impresa. Se gli statalisti sono per uno Stato protagonista, non si attacchino a modelli ormai bocciati dalla storia. Si adoperino, semmai, affinché lo Stato eserciti le sue funzioni in maniera efficiente. Inoltre, la presenza dello Stato nell’economia sarebbe ben più apprezzabile se si manifestasse non nella gestione (per la quale è incapace) ma nella definizione di politiche e piani industriali (questa è una delle sue funzioni) incentivando ad esempio, anche finanziariamente, fusioni e aggregazioni di imprese, oggi quanto mai utili per reggere il momento di difficoltà. A meno che ci sia interesse a “mettere il naso” nelle imprese ― stante, come detto, il venir meno del divieto degli “aiuti di Stato” ― per accrescere a dismisura le posizioni di sotto-governo utili a premiare la fedeltà politica di qualche portaborse ed ottenendone, al contempo, la disponibilità ad assecondare ogni richiesta del protettore

*Carlo Manacorda, docente di Economia Pubblica ed esperto di bilanci dello Stato

 

 

Pubblicazione autorizzata da Rinascimento Europeo:

 

www.rinascimentoeuropeo.org/coronavirus-e-rigurgiti-di-statalismo-sovietico-di-carlo-manacorda/

*Carlo Manacorda, docente di Economia Pubblica ed esperto di bilanci dello Stato

Ti potrebbero interessare anche:

SU