Editoriali | 12 febbraio 2020, 11:11

Industria del risparmio: con alti costi di gestione e rendimenti...a fondo. Di Paolo Turati*

I prodotti del risparmio gestito rendono mediamente meno del “fai da te”. E' prevedibile che sia così. Per due motivi.

Industria del risparmio: con alti costi di gestione e rendimenti...a fondo. Di Paolo Turati*

Perché, in generale, (salvo rare eccezioni, peraltro in genere limitatamente ad un’annualità o due, mentre invece dovrebbe accadere il contrario) i prodotti del Risparmio gestito performano da sempre mediamente meno del “fai da te” rappresentato dal semplice andamento degli indici di benchmark, come da decenni dimostra l’Ufficio Studi di Mediobanca analizzando tutti i Fondi e le Sicav (peraltro non tenendo conto delle commissioni di collocamento, se no il risultato sarebbe ancora peggiore)? La risposta è duplice: una gestione mediamente non efficiente e costi elevati.

Soffermiamoci sui questi ultimi, circa i quali l’ESMA, l’authority europea di sorveglianza dei mercati finanziari, ha tirato fuori un cartellino giallo per l’Italia: il prezzo dei prodotti finanziari venduti risulta infatti sulla base del suo primo Report di quest’anno nettamente superiore alla media continentale ( circa 2% sui Fondi Azionari, 1,8% sui Fondi Bilanciati, 1,40% sui Fondi Obbligazionari) e danneggia fortemente i rendimenti finali.

Rileva l’Esma che i costi degli strumenti azionari venduti alla clientela retail (quella istituzionale spunta per altro verso forti scontistiche che li riducono a circa l’1,5% sull’azionario e lo 0,50% in quello obbligazionario) in Italia (incluse le commissioni di sottoscrizione e riscatto) incidono per oltre un terzo sulle performance lorde (al pari solo di Austria e Spagna) quando la media europea è inferiore ad un quarto. Segnatamente nel caso dei fondi obbligazionari, i più acquistati dai clienti con una quota di quasi un terzo dell’ammontare complessivo, il “peso” dei costi in Italia è il più oneroso in Europa (33,5% contro una media del 27%).  

Inoltre l’Esma, basandosi su precedenti studi della Banca d’Italia e della Consob, rileva che più coerentemente in alcuni Paesi i costi sono decrescenti rispetto all’ammontare investito ed esprime riserve (a nostro parere discutibili, stante l’aumento del rischio) sull’eccesso di investimento in bonds anziché in azioni nonché sui costi dei canali di distribuzione che incidono per quasi i tre quarti dei costi considerati. Un'altra questione di cui tener conto è la stessa dinamica nel tempo delle commissioni, che appare incomprimibile da troppo tempo a questa parte nonostante i Mercati si siano resi più efficienti e quindi meno costosi per i gestori

E fin qui sarebbero tutte rose e fiori, per dirla con un eufemismo. In realtà i costi sopra considerati, il cosiddetto “ongoing charge” ( una volta T.E.R., total expense ratio) che comprende quelli di gestione, di collocamento, di performance, di entrata e di uscita, non tiene conto dei costi di intermediazione del “sottostante”, cioè della differenza tra danaro e lettera incrementata dalla commissione di intermediazione sui prodotti primi compravenduti sulle Borse (primariamente Titoli di Stato, Bonds e Azioni) che costituiscono la “materia prima” su cui si basa una qualsivoglia gestione.

Ecco dunque che con un coacervo di spese annue che può ‘cubare’ all inclusive da un 2% a un 5 % a seconda dei settori di rischio ( più si rischia e più si paga e anche qui ci sarebbe da discuterne), estrarre valore è molto difficile, spesso impossibile.

*Paolo Turati, doc. Economia degli Investimenti

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