Editoriali | 07 aprile 2019, 10:51

Quando Torino era la capitale industriale d'Italia. Perchè non tornare a quegli anni formidabili? Di Giuseppe Chiaradia*

"Quelli erano altri tempi, diranno le élite radical chic. Ma perché gli altri tempi valgono solo per noi e non per gli altri?"

Quando Torino era la capitale industriale d'Italia. Perchè non tornare a quegli anni formidabili? Di Giuseppe Chiaradia*

Alla fine degli anni ottanta Torino poteva vantarsi di essere la capitale industriale non solo d’ Italia, ma forse anche d’ Europa.  Una capitale a 360 gradi: in questa città e nella sua provincia si produceva di tutto, non solo auto, ma anche frigoriferi, vestiti, cioccolato, macchine da scrivere, computer e chi sa cos’altro ancora si faceva, a Torino e dintorni.

In quegli anni la FIAT arrivò ad avere il 15% del mercato europeo dell’auto, e la parte del leone la facevano gli stabilimenti dell’area torinese. Nei decenni successivi il declino della città fu contrassegnato dalla progressiva scomparsa delle aziende storiche, senza che ne nascessero di nuove. A parte i reduci, ben pochi hanno manifestato rimpianto per quell’epoca, e ancora meno ne auspicano il ritorno. E a chi chiede il perché di tutto questo, c’è pronta la frasetta di circostanza: “allora erano altri tempi”.

Eppure recentemente la Germania, una potenza industriale che non ha mai smesso di crescere, di fronte ai primi segni di rallentamento delle esportazioni ed al minaccioso incombere del Dragone cinese, il ministro dell’ Economia tedesco Altmaier ha presentato una bozza di un piano industriale dal titolo eloquente: Nationale Industrie Strategie 2030, che sarà esaminata  dal parlamento, dai sindacati e dalle imprese. Il piano di Altmaier ha per obiettivo la tutela delle industrie strategiche nazionali mediante interventi protezionistici. Sono considerati tali: l’aerospazio, l’automotive, la chimica, la siderurgia, l’intelligenza artificiale, la difesa, le tecnologie verdi. Il piano prevede, fra gli altri, un fondo di investimenti che possa rilevare temporaneamente quote di capitale di industrie tedesche strategiche, per evitare che siano acquisite da soggetti esteri.

Da noi invece si spalancano allegramente i porti alle merci cinesi e si crede, o si vuol far credere, che con qualche mancetta qui è là e l’apertura di un cantiere da qualche parte, l’economia, come d’incanto, si rimette in marcia. Della necessità di un piano industriale per il rilancio dell’economia se ne chiacchiera in termini generici nei talk show, dove spesso si trova gente che non sa nemmeno vagamente come funziona una fabbrica; i più non sanno distinguere fra industria leggera, quella che produce dentifrici e caramelle, che dipende dalle sole capacità del singolo imprenditore, dalle industrie strategiche, come quelle individuate dal piano tedesco.

Un progetto di rinascita dell’industria strategica italiana richiede ingenti risorse in ricerca tecnologica ed investimenti, che il privato non ha o non vuole mettere, e necessariamente dipende dall’intervento dello stato, o come sostegno finanziario, o direttamente, compartecipando, assieme ad industriali veri, che rifuggono delle logiche mercantilistiche, al recupero del tessuto industriale.

Eppure, se qualcuno finalmente si proponesse di rilanciare l’ industria strategica, Torino ne sarebbe il inevitabilmente il centro di riferimento, perché quella che più di tutte fa da volano al resto dell’ economia è l’ automobilistica, e a Torino le auto le sapevano e le sanno fare: però quelle coi pistoni che vanno su e giù, per le quali l’inventiva e l’intuito  dei nostri operai ed ingegneri è insuperabile, non quelle delle batterie elettriche, che richiedono enormi spese in ricerca  e sviluppo tecnologico nell’elettro-chimica nelle quali i cinesi sono  avanti già da anni, a distanza siderale. Attenzione: quando si tratta di tecnologia, quella vera, non quella fasulla degli smanettoni fumati dei computer, la partita è persa: non c’è competizione col Dragone, visto che si muove secondo una pura logica di interesse nazionale, senza chiedersi se il mercato sia d’accordo o meno.


Il picco della produzione auto in Italia ci fu nel 1989:

Auto immatricolate nel 1989:     2.303.404
Auto prodotte nel 1989:         1.971.969

Quindi, su oltre 2 milioni e trecentomila auto immatricolate, addirittura l'86% erano costruite in Italia e principalmente a Torino. Il confronto con la realtà degli ultimi decenni è impietoso. Per rendere l’idea, ecco una media delle auto prodotte in Italia nei decenni successivi:

Auto prodotte nel decennio 1998-2007:         1100.000
Auto prodotte nel decennio 2008-2013:                     558.000

Dal 2014 è iniziata una modesta ripresa, che è arrivata a toccare 742.642 unità nel 2017, nulla a che vedere con lo smalto del passato. E sappiamo bene, che delle auto costruite in Italia, solo una frazione è prodotta nel torinese; nel 2016, la produzione totale dei due stabilimenti fu inferiore a 70.000 unità. Ai tempi d’oro, nelle sole carrozzerie di Mirafiori, con 60.000 addetti si producevano annualmente 800.000 automobili.

Allora non c’era ancora la globalizzazione per cui le fabbriche manifatturiere la componentistica se l’andavano a cercare prima di tutto vicino a casa: lo spirito autarchico non si era ancora completamente dissolto. D’altra parte a Torino, con una tradizione meccanica che risale addirittura alla fine dell’ottocento, il materiale umano non mancava: nessuno al mondo sapeva lavorare alle macchine utensili come i piemontesi. Quanti sono stati gli operai e ingegneri Fiat che si licenziavano per mettere su una fabbrichetta di componentistica per auto? Alcune di queste sarebbero poi diventate dei players a livello mondiale.

E non solo la Fiat, a poche decine di chilometri da Torino, ad Ivrea, c’era l’Olivetti, un  gigante dell’elettromeccanica. L’Olivetti è stata per anni numero uno europeo nelle macchine da scrivere. La riconversione ai computer fu felice: nel 1979 l’Olivetti esordisce con  il primo personal computer europeo, l’Olivetti M20. Alla fine degli anni ottanta l’Olivetti sarà uno dei maggiori produttori europei di computer, con una quota del 13%. Per avere un’idea, nel 1986, da Ivrea uscirono 280.000 personal computer.

C’era poi un'altra grande fabbrica che anch’essa si tirava dietro, come un treno coi suoi vagoni, una miriade di aziende fornitrici: la Indesit, diventata il terzo produttore di elettrodomestici italiano e che arrivò ad avere fino a 12.000 dipendenti, in gran parte distribuiti fra 5 stabilimenti della cintura torinese (None, Rivalta, Orbassano). L’agonia, per questa azienda, cominciò prima, nel 1980, quando andò in amministrazione controllata.

E non solo la meccanica: il GFT il Gruppo Finanziario Tessile, era la numero uno in Italia nel confezionamento dei vestiti. Aveva lanciato marchi come Facis, Marus e Cora e negli anni ottanta tutti i maggiori stilisti, fra cui Armani, Ungaro, Valentino, affidavano a quest’azienda la realizzazione dei loro modelli. GFT ha cessato definitivamente l’attività nel 2002.

Stavamo bene, allora: molta gente faceva il doppio ed anche il triplo lavoro, le fabbrichette messe su da ex operai ed ex manager crescevano come funghi; ancora negli anni settanta arrivavano a Porta Nuova treni carichi di emigranti italiani meridionali a lavorare nelle aziende avide di manodopera. Di andare all’outlet, in qualche ex capannone industriale della cintura riconvertito a bazar dei “sans danè”, non gliene fregava niente a nessuno: i torinesi quando dovevano fare acquisti andavano in centro, in via Roma, il salotto della città, e molti negozi alla moda non esibivano nemmeno il cartellino del prezzo del vestito in vetrina: sarebbe stato indelicato verso il cliente. c’era il lavoro, c’erano i soldi da spendere: quella era la vera epoca del consumismo.

Le grandi fabbriche dell’area torinese rilanciavano l’economia in tutta l’Italia. L’indotto che crea una fabbrica automobilistica è micidiale: centinaia di componenti di tutti i tipi e di tutti i materiali e tutti i rami dell’industria sono coinvolti. La siderurgia per le scocche ed i telai metallici, la chimica per i materiali non metallici, come i polimeri per interni e cavi, i lubrificanti, i combustibili, e gli pneumatici; la meccanica: motori termici, freni, trasmissioni; la elettrica: batterie, circuiti, motori di avviamento; quella leggera, come l’elettronica di bordo per la guida assistita e la manifattura di sedili, tappetini, sterzi, finestrini, cruscotti e molto altro ancora, ad libitum. E le aziende fornitrici erano disseminate in tutto il Paese.

Oggi di quel periodo è rimasta l’Iveco, l’alimentare, ed un certo numero di aziende medio piccole che sono riuscite a sopravvivere e a diventare delle eccellenze, malgrado il clima ostile verso la modernità dei decenni successivi, causato dal dilagare, all’interno delle istituzioni e dei media, delle ideologie pseudo ecologiste ed anti industriali.

Il nostro competitor di allora, la Germania, nel frattempo ha continuato a crescere alla grande. L’industria automobilistica tedesca detiene oggi una quota del 26% di tutte le auto vendute in Europa, la sola Volkswagen ha costruito nel 2018 qualcosa come 6.942.036 unità, mentre la quota di auto prodotte in Italia sono è ridotta a qualche misero percento: nel 2017, secondo i dati di Jato Dynamics, le auto italiane vendute in Europa sono state appena 3,3 %. E pensare che negli anni ottanta la Fiat contendeva a Wolkswagen la palma di maggior costruttore europeo.


*Giuseppe Chiaradia, ingegnere chimico.

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